DEFICIT E ALTRE MANCANZE

Pubblicato il da stefy.stefy

DEFICIT E ALTRE MANCANZE

Da poco aveva iniziato a lavorare in una nuova società, americana di proprietà, ma la cui sede centrale europea era a Siviglia.

Siviglia è una bellissima città, nel centro della regione del Flamenco, degli Alcazar, della Sierra Nevada, di alcune feste popolari tra le più belle, delle imponenti cattedrali, del Gazpacho e de “lo siento”.

Adorava l’espressione “losiento”, perché è come esprimere realmente un dolore sordo e poco intenso, ma sentito, che partecipa il dolore della persona a cui lo si dice; dice che, se anche non si può capire appieno, perché non si vive direttamente il dolore, un po’ se ne percepisce il peso e, per osmosi, si partecipa a sostenerlo.

Pensava a tutto questo, mentre la stavano, da più di 30 minuti, introducendo all’infinito intreccio di linee di prodotto, direzioni, sedi e dipartimenti.

Si era già persa a “la sede centrale europea è a Siviglia”, a 10 minuti dall’inizio della riunione. Se non poteva partecipare attivamente, interagendo, e nello specifico caso, non poteva, perdeva interesse, era il suo maggior deficit, ma ne aveva anche altri.

La difficoltà di ascoltare è diversa dalla difficoltà di sentire. Ma ascoltare non è sufficiente, bisogna anche sentire, rendendo proprio ciò che si è ascoltato, trasformando le parole in sensazioni, che permettono il rimando della risposta e innalzano il livello della conversazione a comunicazione. Ma, se non è sufficiente ascoltare e bisogna anche sentire, è anche necessario ascoltare, per armonizzare le percezioni, alla ricerca dell’unisono di intenti comunicativi. Nell’assurda presunzione di sentire, però, lei spesso ometteva di ascoltare. Era un suo deficit, ma ne aveva anche altri.

I primi giorni erano stati intensi di cose nuove ricevute: un ufficio tutto suo; un nuovo PC, completo di docking station e video grande più del suo televisore della cucina; un stiloso zaino; chiavi, telecomandi e badge per le diverse porte e ascensori; un attualissimo telefono diverso nel sistema operativo, mancante di auricolari e caricatore, che erano arrivati a parte e un paio di cuffie giganti, di quelle che si mettono sopra le orecchie e non dentro, da usare per le riunioni in teams, senza fili e con cui si può continuare a parlare e ascoltare fino a 10 mt di distanza dal PC. Moderne e super performanti, si, ma anche difficili da installare e mettere in comunicazione con il resto dell’intorno elettronico.

Perché, in fondo, pensava,  il primo Onboarding si ha con gli IT-Men del reparto informatica; non con il capo, non con gli altri colleghi, ma con il dipartimento informatico, i colleghi del quale, autorizzando e abilitando i sistemi,  permettono l’imprinting agli applicativi aziendali, la possibilità di collegare una foto al nome e all’identificativo, e l’accesso all’organizzazione, che dispersa geograficamente, si riunisce nella piazza virtuale degli applicativi, che annullano la distanza fisica, ma quasi mai quella mentale.

Lei era capitata a Ricardo, un loquace spagnolo che conosceva benissimo l’italiano e aveva i capelli corti e brizzolati, una maglietta dei Ramones un paio di Tamashii al polso destro, o forse sinistro. Sbagliava sempre e doveva rifletterci, facendo tutti i passaggi mentali, per dirlo giusto, quando l’interlocutore era di fronte a lei e la sua parte destra era la sinistra dell’altro. Pensando a Ricardo, lo immaginava mentre diceva “vivo e amo i miei 50 anni come ho vissuto e amato il decennio dai 20 ai 30 anni”. Il gioco è mettersi nei panni dell’altro e farsene un’immagine e questo le sembrava facile. Per vincere, però, ci si deve dare la possibilità di cambiare idea, e questo le sembrava difficile. Era un suo deficit, ma ne aveva ancora altri.

Un ticket riaperto per la terza volta abbatteva i KPIs di Ricardo, che, nell’intento di insegnare alla collega come smettere di farsi usare dalla tecnologia, entra nel suo PC, annullando le distanze fisiche prima e poi, subito dopo anche quelle mentali.

Il primo click autorizza l’accesso al PC, ma il secondo chiude la schermata di power point su cui stava lavorando la collega, aprendo su Spotify. La musica che ascoltiamo dice di noi: della nostra età e delle nostre abitudini. Per una certa generazione, quella di Ricardo, talvolta, anzi spesso, il tipo di musica ascoltata era facilmente collegabile a comportamenti e usi. Musica sintetizzata tecno, ballo, discoteca, assembramento; musica più melodica e musicalmente strutturata, concerti, aggregazione.

La compilation, prima della libreria, si chiamava IlTangodiX.

Perché lei ascoltava e ballava tango. Questo non era un suo deficit.

E lui anche. Le cuffie, indomate nell'uso e tracciate nel ticket, non più pervenute. La conversazione nell’ascolto e nel sentire si sposta sulla passione scoperta comune, perché anche lui balla tango. Sul dove, sul quando, sul come e il da quanto.

La playlist diventa protagonista e spotify il mezzo che giustifica il fine di condivisione. Che bello parlare di una passione comune, qualunque essa sia, accende gli occhi e riempie lo spirito. Nasce la promessa di una concreta condivisione, a Milano o forse a Siviglia, di ballare insieme e per lei tutto diventa un po’ più casa. Forse, nella settimana del mese successivo in cui lei sarebbe andata a visitare gli uffici di Siviglia.

E quando la settimana del mese successivo arriva e incontra lui,  sa che alcune promesse non sono solo parole, che alcune passioni non hanno paese, che la musica è un linguaggio universale, che il tango aiuta lo scambio, l’interazione, la fiducia e l’empatia, che enfatizza le sensazioni, accelera la confidenza, a volte confonde i sentimenti e a volte li rende cristallinamente chiari, e sa che la sera balleranno e ha finalmente l’impressione che i pezzi del puzzle che faticava a ricomporre, iniziano a trovare un incastro e a formare un’immagine che un senso ce l’ha e incomincia a sentirsi a casa anche nella nuova azienda.

Non avere pazienza e non darsi del tempo è un altro dei suoi deficit.

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