CONVERSAZIONI RIFLESSE

Pubblicato il da stefy.stefy

CONVERSAZIONI RIFLESSE

Ho bisogno di te perché ti amo

Oppure 
Ti amo perché ho bisogno di te
 
Ho sentito alla radio queste due frasi. Non ne ho inteso subito la differenza, mi sembrava che esprimessero lo stesso concetto, con le stesse parole organizzate in un ordine diverso,  come la proprietà commutativa nell'addizione: cambiando l'ordine degli addendi la somma non cambia. 
Quando ho capito, non ho avuto dubbi: la  uno. È perche ti amo che ho bisogno di te e non è che ti amo perché ho bisogno di te.
 
Ascolto spesso la radio, perché la musica mi piace molto. Canto sempre quando c'è una canzone che conosco, in auto, sotto la doccia, in casa mentre pulisco o riordino, mentre cucino.  
Non mi preoccupo della tonalità e  reinterpreto un po' la ritmica a vantaggio del mio diaframma. 
 
Una volta, un amico che suona il sax  mi ha spiegato di alcuni esercizi fatti per allenare il diaframma (che poi è un muscolo, quindi allenare è proprio la parola adatta) Mi era sembrato strano che per suonare, che è un'attività che io riconduco all'estro e alla sregolatezza, si dovesse  essere metodici e strutturati nell'allenamento, con esercizi ripetuti e faticosi, attività che collego  al rigore e alla schematicità.
Poi ho pensato che per rompere gli schemi, bisogna padroneggiarli e per poterli padroneggiate li si deve avere acquisiti. Rigore e schematicità a beneficio di una postuma sregolatezza.
 
Mi piacciono le contraddizioni, mi fanno pensare che la vita sia infinita e alternativa, nel senso di possibilità alternative, ma allo stesso tempo connessa negli estremi che si toccano.  
 
Uso whatsapp come tutti, ma ne ignoro le convenzioni  e uso i messaggi come se trascrivessi una conversazione parlata.
Le nuvolette non mi bastano perché  limitano l'enfasi della comunicazione appiattendola e a volte travisandola; non so coordinarmi con la velocità dell'interlocutore, a volte, le mie conversazioni diventano due dialoghi paralleli, certo non divergenti, ma sicuramente nenache convergenti. 
Non sopporto la caduta verticale delle chiacchere virtuali mozzate, non so gestirla e la considero una mancanza di educazione.
Volutamente ignoro le regole ortografiche, ma mai quelle sintattiche. Uso la punteggiatura. 
E infine non sopporto i messaggi vocali. Come a tanti, mi viene da rispondere o interrompere il monologo come fosse una conversazione.
Uso whatsapp come se parlassi in un'altra lingua, ma senza pensare in quella lingua, quindi non correttamente, nè efficientemente.
 
Io parlo inglese tutto il santo giorno e questo comprime i miei pensieri, perchè non riesco a pensare tante cose insieme in un'altra lingua. In una lingua diversa penso binario e una cosa alla volta, perché, sopra tutto, devo pensare a pensare in quella lingua. 
 
A volte,  per decomprimere la fatica deĺla giornata, vado a comprare cose. 
Compro cose quando non ne ho bisogno. Immagino situazioni in cui usarle posti su cui appoggiarle, progetto modifiche e abbinamenti e mi tolgo dalla difficoltà di doverle trovare quando ne ho bisogno, ma soprattutto, scelgo e desidero. 
 
Delle cose, come nelle persone, sono i particolari ad attirarmi.
Fatico a ricordare i nomi, perché associo la caratteristica, la tipicità che ho notato ed è quella che rammento. Da quella, poi,  astraggo la mia presunta comprensione di quella persona. 
Di lei per esempio avevo notato le dita scarne e nervose, con gli anelli larghi e le unghie senza smalto. Ho pensato fosse più vecchia di quello che sembrava in viso;  ho pensato che fosse una persona che tratteneva le sue emozioni, perchè le dita erano un po' nodose e mi facevano pensare ai nervi e alla tensione, la tensione di tenere;  ho pensato che ragionasse  razionalmente, per come le intrecciava, composte, incastrate, giuste; che non amasse il vino e che, se si fosse trovata a bere, avrebbe bevuto da un flute del bianco bollicioso, perché non immaginavo le sue dita intorno ad un calice,  non erano avvolgenti, erano veloci e sfuggenti, toccavano appena; ho pensato che ridesse il giusto, contenuta, raccolta, come le sue mani
 
Era passata quasi un'ora e stava ancora davanti allo specchio parlando e ascoltandosi, intrecciando le dita compostamente, attenta a non fare sfilare i larghi anelli.
 
Pensava a  tutte queste cose ed era agitata di quella frenesia che solletica piacevolmente, contenta del suo appuntamento del giovedì sera di ogni 15 giorni, in cui parlava liberamente senza preoccuparsi di frenare improbabili associazioni di idee, e pensieri suscitati;  per il solo piacere di esternare, alla ricerca di un liberatorio senso di leggerezza.
 
Si rendeva  conto, ascoltandosi, che l'infinita serie di consapevolezze dietro cui si celava, veniva letteralmente saltata da quello che pensava e di conseguenza agiva. Sentiva, profondo, il distacco tra ciò che era nello specchio e ciò che sarebbe dovuto essere nel conversano. O era viceversa?
 
 
 
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